"Case di Trastevere", 1974
Le immagini qui riprodotte sono serigrafie su carta. La matrice è un telaietto serigrafico sensibilizzato alla luce direttamente nello chassis di una vecchia fotocamera, in questo caso un vecchio esemplare di Contessa Nettel. Il tempo di posa in pieno sole, si aggira sui venti minuti. La dimensione delle riproduzioni a colori sono quelle delle immagini reali. P. G. 1974
in P.G. Dragone. "Paolo Gioli. Imagery di un immaginatore di immagini"
Fotocamera Contessa Nettel, 1974 (per fotoserigrafia diretta)
P.Dragone "Paolo Gioli. Imagery di un immaginatore d'immagini", Milano, 1977
Piergiorgio Dragone "Imagery di un immaginatore d'immagini", 1977
«Paolo Gioli è nato a Sarzano (Rovigo) il 12 ottobre 1942. Si è interessato soprattutto di ricerche grafiche e pittoriche fino al 1967, quando si è trasferito a New York. Dopo il suo ritorno in Italia ha affiancato all'attività pittorica la ricerca filmica».
Questa scheda biografica, comparsa nel 1974 in un numero della rivista di cinema e spettacolo «Bianco e Nero», dedicato al film sperimentale, era già stata pubblicata più di una volta, senza rilevanti differenze, in contesti abbastanza diversi. Anche in seguito la ritroviamo spesso, e sostanzialmente inalterata: in un recente ed inedito volume di litografie, ad esempio, e nel n. 227 di «Fotografia Italiana». Talvolta viene precisato che la ricerca cui Gioli si dedica non è solo «filmica», ma anche e specificatamente «fotografica»; può esserci la notizia che l'autore vive a Milano. Ma gli elementi biografici che l'artista fornisce sono sempre questi stessi, estremamente scarni, eppur cosi essenziali ed eloquenti: il luogo di nascita, che non è un dato puramente anagrafico, ma un fatto che Gioli cita sovente, con un misto di orgoglio e di rabbia - quasi a sottolineare lo sforzo compiuto per uscire da un ambiente provinciale e per superare le chiusure di una cultura ufficiale che, rivelando in questo modo i propri limiti, questi si davvero provinciali, tende a sottovalutare ciò che non nasce nelle metropoli - l'interesse per tutto quanto è produzione di immagini, la ricerca e cioè la sperimentazione dei vari mezzi e linguaggi espressivi, il periodo newyorkese che, in un anno centrale come il 1968, ha rappresentato un momento nodale, un vero e proprio fulcro, nella vicenda di Gioli, determinando una svolta sostanziale nel suo discorso. È importante sottolineare che quelle poche frasi compaiono in riviste o in cataloghi relativi a settori paralleli, che malgrado tutto continuano però a restare dei compartimenti stagni: cinema, pittura o comunque arti figurative, fotografia.
Nel lavoro di Gioli invece non c'è alcuna soluzione di continuità fra le diverse tecniche e i vari mezzi espressivi; e da ciò discende una prima difficoltà nell'accostarsi alle sue immagini, perché in genere si ha scarsa dimestichezza con dei metodi di lettura che consentono un esame sufficientemente articolato ed esauriente. La seconda difficoltà, connessa d'altro canto alla prima, deriva poi dal modo stesso in cui è stata strutturata questa monografia: si è infatti inteso fornire una prima sommaria panoramica dell'opera di Gioli, e si è perciò operata una scelta che privilegia - com'è ovvio data la sede - il «fotografo», adottando oltre tutto, dei criteri che mettono in particolare evidenza da un lato gli aspetti tecnici e dall'altro quelli tematici; e ciò - assommandosi alle drastiche ma inevitabili limitazioni quantitative che hanno avuto conseguenze anche sul piano qualitativo, dato che si doveva scegliere fra un corpus di immagini che ha ormai raggiunto una notevole consistenza, articolandosi in una complessa varietà di accenti - ha fatalmente finito per relegare in secondo piano degli aspetti più sostanziali, che avrebbero probabilmente meglio chiarito il significato nelle sue ricerche ed indicato i problemi che queste sollevano. Ma, almeno in prima istanza, non si poteva ragionevolmente optare per una impostazione diversa: un taglio più «problematico» avrebbe posto ancora più in difficoltà il lettore, che già deve farsi un'idea di questo artista disponendo di un corredo iconografico limitato a qualche decina di immagini; e d'altronde il compito di individuare dei problemi e di scoprire il senso di certi nessi può essere demandato alla «presentazione», il cui scopo dovrebbe appunto essere quello di fornire delle chiavi di lettura, che permettano di spingersi oltre la semplice ed elementare conoscenza di un fatto figurativo, pervenendo alla sua effettiva comprensione che è senza dubbio più ardua e complessa. Questa sorta di premessa trova la sua giustificazione nella necessità di evitare il rischio di una fruizione tecnicistica, astrattamente estetizzante o meramente contenutistica; e ciò perché, pur non sottovalutando affatto l'interesse delle tematiche affrontate da Gioli o l'importanza delle sue «invenzioni» tecniche, bisogna avvertire subito che se si vuole giungere ad una loro corretta interpretazione, esse devono essere esaminate alla luce di quel contesto complessivo - di esperienze formali, di nessi problematici, di rinvii concettuali e di agganci culturali - che sta alla base della sua formazione di artista. Non è casuale, ad esempio, che i temi di Gioli ricorrano in ogni aspetto e fase della sua opera e che, profondamente connessi alla sua personalità, vengano via via sviluppati col procedere stesso delle differenti sperimentazioni tecniche: se nei confronti di queste ultime essi finiscono quasi per essere nulla più che degli argomenti sui quali verificare l'efficacia e la resa di un processo di produzione delle immagini, a loro volta le ricerche tecniche, fondate sul recupero e la rivisitazione di mezzi ed elementi «primordiali» della fotografia o del cinema, non sono che gli spunti per un discorso di ben più vasto respiro; un discorso che investe il problema stesso della natura dell'immagine fotografica, mettendone in evidenza la sostanziale ambiguità: da un lato il fatto di essere raffigurazione di una qualche realtà, dall'altro di esserne una interpretazione; su questo irriducibile dualismo fra oggettività e soggettività della visione, si innesta poi quello analogo degli strumenti tecnici, che dovrebbero esserne l'elemento di mediazione e che, in realtà, non fanno che riproporre la stessa ambivalenza: da un lato si trovano infatti i vincoli meccanici -che pure non garantiscono alcun tipo d'oggettività, ma che comunque costringono almeno a certi precisi e prestabiliti modi di strutturarsi dell'immagine - dall'altro lato le possibilità di intervento, in pratica di ampia manipolazione, che consentono di influire sul determinarsi dell'immagine stessa. Nel momento in cui si procede ad un esame concreto dei risultati del lavoro di Gioli, distinguendo puntualmente i vari aspetti nei quali esso è articolato, si deve evitare che il fascino di certe immagini o la curiosità di certe apparecchiature ci inducano a perdere di vista il complesso della sua ricerca: di fronte alle sue opere, infatti, non si tratta soltanto di cogliere l'interesse del procedimento adottato, ne di limitarsi ad apprezzare la qualità estetica - che pure si può e si deve rilevare - di un certo esito, quanto piuttosto di comprenderne il senso più globale e soprattutto di individuare i problemi cui esso da luogo. Troviamo innanzi tutto il filone di discorso che, con un'etichetta piuttosto riduttiva, è stato definito del fotofinish: un'operazione che si può riconnettere all'anamorfosi, al problema della traduzione fotografica e cinematografica del movimento, a quello della fotografia a 360 gradi. E già fin d'ora balza agli occhi un primo paradossale raffronto tra la vastità dei problemi toccati e l'estrema povertà artigianale della strumentazione utilizzata: una osservazione, questa, che saremo spesso indotti a riprendere. Eppure, a ben vedere, la semplicità innegabile dell'apparecchio fotografico implica una notevole complessità di effetti provocati dai movimenti dell'operatore - in senso, direzione e velocità - con cui vanno ad interferire e combinarsi i movimenti di chi vien ripreso, mentre è poi determinante il ritmo di scorrimento manuale della pellicola e la forma della feritoia nella mascherina metallica che sostituisce la tendina. Anche solo questo primo esempio dimostra eloquentemente che lo spunto tecnico - l'idea cioè di ricorrere ai principi del fotofinish per articolarli in un contesto del tutto diverso e con un impiego eterodosso -può essere si importante ma non è di per sé risolutivo: ciò che conta è innanzi tutto l'allestimento «povero» dell'apparecchio, poi la sperimentazione del suo funzionamento, fino alla totale padronanza dei suoi meccanismi ed infine, e soprattutto, la configurazione mentale dei risultati che si vogliono ottenere, alla luce dei quali si procede alla scelta del soggetto da riprendere. Sulla base di questa fondamentale sintassi si sviluppa infatti un discorso ricchissimo di inflessioni, nel quale potranno di volta in volta risaltare certi determinati elementi: nelle primissime sequenze le connessioni con l'anamorfosi sono più evidenti, anche se più per i risultati che non per i presupposti dell'immagine; già verso la fine della stessa pagina si nota che il meccanismo fondamentale non è quello della prospettiva e dei suoi paradossi, quanto quello della frammentazione della figura che si presta a vari tipi di aberrazioni: questa si può ora ricomporre con una certa naturalezza, ora violentemente rattrappire o estendere, mentre la drammatizzazione del soggetto
radicalizza le varie situazioni. Ma ci sono altri due fondamentali fattori che contraddistinguono queste immagini, differenziandole ancor più nettamente dalle anamorfosi, sui quali è opportuno richiamare l'attenzione dello spettatore, affinchè rifletta anche sulla loro portata e sul significato che essi possono assumere: innanzi tutto il punto di vista non è fisso e neppure ci si limita a registrare la realtà circostante ruotando su un proprio asse, ma la ripresa si può realizzare con un movimento dell'apparecchio fotografico che avvolge ciò che viene ripreso, circondandolo ed esplorandolo da ogni lato; in secondo luogo - e questo è un elemento che costituisce una vera e propria costante nell'opera di Gioli, dal momento che si ripropone, seppur con accenti e definizioni diverse, in ognuno dei suoi modi espressivi, qualunque sia lo strumento utilizzato, ciò che esaminiamo non è mai una singola immagine, assumibile di per sé, slegata da un contesto, ma una sequenza o un suo frammento, un qualcosa, cioè, che esprime un momento di un organico sviluppo temporale, talvolta squisitamente narrativo, o che quanto meno rappresenta comunque una fase di una successione logica, uno stadio particolare all'interno di un susseguirsi di interventi che concorrono ad una più complessa elaborazione-produzione dell'immagine. Nel caso specifico poi, la sequenza è effettivamente una progressione «continua» che registra una successione cronologica e spaziale, ma in modo del tutto atipico: se per ciò che riguarda il tempo ci può essere un'accelerazione, un rallentamento o anche una sosta, mai comunque una frammentazione -come accade nella ripresa cinematografica che spezzetta l'azione in tanti fotogrammi, per poi riproporla avvalendosi del fatto che la nostra vista non è in grado di percepire in modo distinto ciò che appare per un lasso di tempo troppo breve, per cui una rapidissima successione di fotogrammi ci sembra non l'accostamento di tanti istanti, ma un unico sviluppo temporale che ricostruisce l'unità dell'azione - per ciò che riguarda lo spazio invece esso può essere evidentemente manipolato in misura maggiore - come mai la normale ripresa fotografica, pur con i vari dispositivi ed accessori ottici, potrebbe fare - grazie ai movimenti di ripresa e al tipo di feritoia nella mascherina, per cui risulteranno, a seconda dei casi, degli effetti di riduzione fino all'annullamento o di notevole dilatazione, accompagnati da tutta una serie di ulteriori «deformazioni» estremamente suggestive. Un effetto particolare è, ad esempio, quello dello sdoppiamento provocato dall'inversione del senso di movimento dell'apparecchio durante la ripresa: si determina cioè una sorta di doppio speculare di una stessa metà, in cui però la corrispondenza è solo spaziale, dato che cronologicamente una parte è successiva alla precedente; e tutto ciò assume ulteriore rilievo quando si instaura un contrasto fra il primo piano, nel quale si verifica lo sdoppiamento, e lo sfondo che finge una perfetta ricomposizione naturalistica. È chiaro che da questo momento le possibili variazioni sono pressoché illimitate, ed il fatto di riprendere un soggetto nei cui confronti si effettua una precisa regia, o una situazione per la quale invece si possono fare solo delle previsioni sui probabili avvenimenti, senza possibilità di un effettivo
controllo (come nel caso delle scene per strada), non farà che introdurre delle altre variabili che vanno ad arricchire e a rendere più complesso il determinarsi delle immagini e del loro significato. D'altro canto l'intento della ripresa non vuole affatto essere
naturalistico; se da un lato c'è l'esigenza di ampliare le possibilità di registrazione della realtà - s'è accennato all'avvolgimento del soggetto ripreso, come all'enfatizzazione dei suoi movimenti e delle sue espressioni - non si rifugge certamente dal presentarne una lettura del tutto parziale e soggettiva; e questo perché l'obiettivo di fondo è proprio quello di provocare degli effetti eterodossi: l'attenzione dell'autore è infatti rivolta al risultato formale che si verrà a determinare, al modo in cui si definiranno, all'interno della pellicola nel suo complesso, le singole immagini. Queste ultime costituiscono perciò dei risultati specifici e concreti, da valutarsi di volta in volta per ciò che rappresentano anche solo di per sé; e purché si abbia coscienza del fatto che le singole stampe sono parte di un «continuum» - in quanto si riferiscono ad una porzione di un unico negativo che non ha alcuna soluzione di continuità - non è quindi grave scorrettezza il considerarle delle definizioni formali autonome e riscontrarne la notevole raffinatezza estetica.
È quanto accade nel caso di molte delle illustrazioni della monografia, per le quali si possono individuare precisi riferimenti ad espressioni e correnti dell'arte figurativa: a questo proposito si vorrebbe procedere ad una analisi più puntuale, ma l'impossibilità di ampliare eccessivamente il discorso non consente di andare al di là della pura citazione di una più evidente atmosfera neodadaista, di alcune valenze surrealistiche o degli influssi di certa recente nuova figurazione. La conferma del valore figurativo di queste immagini risulta d'altronde dal fatto stesso che l'autore se ne avvalga poi come di un materiale di base, da cui trarre delle serigrafie di vaste dimensioni. Ma veniamo all'altro importante filone di ricerca, su cui Gioli ha lavorato negli ultimi tempi e che è tuttora oggetto di approfondimento, e cioè l'indagine sulla flessibilità d'uso del materiale sensibile Polaroid, uno dei più avanzati e recenti ritrovati della tecnologia industriale del settore. L'artista è affascinato dalla magia del lento ed inesorabile formarsi dell'immagine a colori, ma nello stesso tempo cerca di smontarne e controllarne il processo. Nel tentativo di sfuggire ai condizionamenti tecnologici che gli sottraggono spazio e possibilità creative, respinge l'ausilio dell'apposito apparecchio fotografico comunemente in commercio e adotta, invece, dei modi eterodossi di realizzare le sue Polaroid: procede infatti per contatti diretti o si avvale di una semplice scatola dotata di uno, o più, fori stenopeici e ripropone cosi un contrasto di fondo tra la complessità di un sofisticato prodotto industriale e l'artigianale elementarità degli strumenti di cui si serve. Il senso di riappropriazione del controllo sul formarsi dell'immagine viene sottolineato dal fatto che gli interventi non riguardano solo l'esposizione del materiale sensibile, ma anche la fase dello sviluppo: la pressione necessaria a fare uscire dalle vescichette i liquidi rivelatori, e a distribuirli sulla superficie della fotografia, viene infatti realizzata da Gioli con dei rulli, che vengono fatti agire non uniformemente e che lasciano perciò delle «imperfezioni», quali la zona color terra ad uno degli angoli o le smagliature dendritiche che si insinuano dai bordi.
Talvolta l'artista giunge addirittura ad una forma di drastica e «azzerante» semplificazione del processo e, eliminando perfino
l'esposizione, si limita a schiacciare manualmente i serbatoi e a guidare i liquidi con le dita, provocando il formarsi di un'immagine a colori, che si colloca tra il fantastico e il casuale. Spesso Gioli infatti lascia che la casualità assuma un ruolo nelle sue opere, sia per avere l'occasione di scoprire nuovi spunti ed effetti da sottoporre subito ad una indagine sistematica, sia perché l'empirismo tipico del suo modo di procedere offre spazi all'imprevisto: e proprio il trasformare ogni «accidente» dell'immagine in una soluzione espressiva costituisce uno dei tratti caratteristici della sua poetica. Anche l'uso della camera a foro stenopeico, con le sue varie conseguenze - prima fra tutte quella di fornire un'immagine speculare - costituisce, ad esempio, il punto di partenza per una rivisitazione delle diverse fasi e modalità di produzione dell'immagine fotografica: si assiste cosi al susseguirsi di fotogrammi ottenuti per contatto diretto di oggetti o di immagini prescelte, che vengono poi fissate per trasparenza o per riporto con agenti fisico-chimici; di fotografie che testimoniano la ricerca di una vasta gamma di effetti, da un massimo di nitidezza e precisione di dettaglio, sino ad una più soffusa e volutamente indistinta atmosfera; di immagini elaborate, frutto degli accorgimenti e dei «trucchi» di camera oscura, per cui si va dalle sovrimpressioni ai diversi tipi di mascheratura. Nello stesso tempo tutto ciò rappresenta l'occasione per ripercorrere le sue tematiche più caratteristiche, avvalendosi di nuovo - ed è un peccato che i limiti di spazio abbiano impedito di darne testimonianza nelle illustrazioni della monografia - di una forma di discorso strutturata per sequenze, che in questo caso diviene tanto più significativa in quanto consente di superare la dimensione di «unicum», che sembrerebbe implicita nella natura della Polaroid; si sarebbero altrimenti potuti osservare lo sviluppo di una vicenda narrativa, la documentazione dei vari «stati» di costruzione di una immagine o lo stabilirsi di una «serie», formata dal succedersi delle inflessioni che la medesima immagine assume, a seconda dei differenti filtri impiegati per ottenere delle diverse campiture cromatiche. Quest'ultima «accezione» della sequenza è, d'altra parte, la stessa che ricompare nella serigrafia diretta, un procedimento che costituisce un'interessante sintesi tra il modo di produrre immagini tipico della fotografia, e quello caratteristico della serigrafia; ancora una volta Gioli è particolarmente attratto dalla possibilità di studiare i meccanismi di certe tecniche attraverso il loro uso eterodosso, ma ciò che più gli interessa è la preparazione artigianale della matrice, il fatto di stendere la materia sensibile sulla lastra-telaio, che rappresenta il recupero di una fase storica del processo fotografico. Si ripropone cioè il tema della rivisitazione delle prime ed essenziali tecniche della fotografia e del loro accostamento a strumenti più recenti e sofisticati: in questo caso l'elemento «arcaico» è la superficie sensibilizzata, che viene poi impressionata con un normale apparecchio a lastre, mentre nel caso del «panino»,del «bottone», come del «flauto da presa», sarà proprio la fotocamera ad essere «rivisitata». In ciascuna di queste operazioni, accanto al ricorrere dei temi ormai usuali, vengono messi in evidenza certi aspetti particolari: il «panino» sottolinea che la fotocamera, sostanzialmente, non è che uno spazio cavo ed oscuro che non richiede alcuna regolarità di forma e che può servire per impressionare tanto una pellicola quanto una carta sensibile; il «bottone automatico» (press-button in inglese), oltre a prestarsi ad una ironica allusione al celeberrimo slogan "you press the button, we do the rest", qui duramente ridimensionato dall'essenzialità di questo incredibile simbolo del processo fotografico, può a sua volta essere abbinato ad un modernissimo flash e dare luogo a delle immagini dal sapore quasi di incunabolo, che paiono giungere da una dimensione onirica; il «flauto da presa» ripropone, in termini analoghi, gli stessi problemi, privilegiando però la serietà delle immagini e costituendo un ulteriore esempio di camera ricavata da uno qualunque dei molti oggetti che ci circondano.
Come si vede, ogni parte della ricerca ha molteplici interrelazioni con le altre, e d'altro canto dei rapporti si potrebbero riscontrare anche a proposito di quel fondamentale capitolo rappresentato dai film d'avanguardia, di cui s'è parlato all'inizio.
In questo fitto intersecarsi di rinvii, e di fronte alla constatazione che le diverse esperienze continuamente rifluiscono e confluiscono in tutti i settori di sperimentazione, si riesce comunque a cogliere un fondamentale momento di unitarietà. Il filo sotterraneo che collega i vari aspetti della complessa avventura di Gioli con l'immagine può, infatti, essere individuato nella struttura stessa del processo logico, sul quale si sviluppa il suo discorso figurativo: ogni spunto, immediatamente attuato con amore e metodo tutto artigiano, comporta infatti un lungo lavorio mentale sul suo significato e sulle sue possibili articolazioni, che deve a sua volta trovare una verifica pratica, e cosi via in una sequenza pressoché illimitata che si arricchisce di infiniti rinvii associativi, dove l'alternarsi del momento inventivo e di quello della realizzazione si traduce in uno spettacolare caleidoscopio in permanente trasformazione. Ciò che interessa l'artista non è tanto la conoscenza della realtà che lo circonda o lo stabilirsi di un rapporto con essa, quanto piuttosto il fondamento, il presupposto cioè ed i modi, di questo rapporto e la sua verifica attraverso la constatazione dell'adeguatezza della realtà a chi l'osserva, in una specie di rispecchiamento del soggetto che scopre cosi il proprio potere di controllo sulla realtà. In questo quadro si comprende meglio come per Gioli il processo fotografico non sia altro che uno dei numerosi mezzi di produzione delle immagini, particolarmente adatto, per le sue caratteristiche e proprietà, a fornire spunti e suggerimenti all'artista, cui interessa esaminare la natura di questo strumento, soprattutto per esaltarne la fondamentale ambiguità di mezzo meccanico, apparentemente oggettivo e di tecnica ampiamente manipolabile. A questa dialettica tra vincolo del mezzo e intenzione di chi lo adopera, si aggiunge poi quella tra la casualità di ciò che viene ripreso e la progettazione di chi effettua la ripresa: il rapporto, abbastanza complesso, è quindi tra l'immaginazione dell'immagine da parte dell'autore, l'aggregarsi di quest'ultima nel corso del processo fotografico ed il suo definitivo concretizzarsi, quando in camera oscura l'azione dell'operatore torna ad essere determinante: come si vede i termini principali continuano ad essere il soggetto e lo strumento che egli usa.
Su tutto ciò si innesta un ulteriore accavallarsi di vari riferimenti culturali e di rinvii concettuali che procedono per associazioni e
contrapposizioni; ne scaturisce una situazione apparentemente caotica, nella quale sono facilmente ravvisabili gli echi di quella
particolare inflessione che il neo-dada newyorkese ha assunto nell'esperienza del cinema underground degli anni sessanta, caratterizzata da un modo acuto, quanto dissacrante, di «giocare» sui registri più tipici delle avanguardie storiche, riprendendone lo spirito e gli accenti paradossali, anche se con risultati che fanno emergere più la raffinatezza formale che non il valore complessivo, anche ideologico, di quelle operazioni. Ma se esperienze di questo tipo si basavano, fra l'altro, anche
sull'improvvisazione e sull'uso brillante di un'inventiva talvolta fine a se stessa, rifuggendo da ogni inquadramento e da qualunque articolazione sistematica, nel caso di Gioli bisogna invece constatare l'evidente rigore e la precisione con cui ogni spunto viene sviluppato, ed ogni possibile strada esplorata, fino a giungere ad uno svolgimento organico delle idee e dei filoni di ricerca.
Monografia allegata a "Fotografia Italiana", n.232, Milano, dicembre 1977
Paolo Gioli in una fotografia di Carla Schiesari (fine anni settanta)